Il 7 dicembre 1941 è una domenica. Velivoli giapponesi attaccano la base navale americana di Pearl Harbor. Il loro obiettivo è quello di annientare con un solo rapido colpo la principali unità della Flotta del Pacifico; corazzate e – soprattutto - poraerei. Le navi nipponiche sono riuscite ad avvicinarsi non viste al loro obiettivo, osservando un assoluto silenzio radio. Gli aerei hanno colpito nella mattina di un giorno di festa quando buona parte del personale e assente dalla base e il resto ha la guardia abbassata. Per una incredibile serie di circostanze gli indizi di ciò che sta per accadere vengono tutti ignorati a partire dai segnali radar che rivelano la presenza degli aerei giapponesi in rotta verso la base. Superficialità e disattenzione favoriscono la sorpresa. La catastrofe alla fine sarà così grande da risultare non solo difficile da spiegare ma anche inaccettabile, tanto che in molti, soprattutto negli ambienti della destra isolazionista americana, si convincono che qualcosa di anomalo deve essere accaduto. Oggi ci occupiamo della battaglia di Pearl Harbor e delle tesi complottiste che hanno ripreso vigore a partire dal 2000 con il ritrovamento del cosiddetto memorandum McCollum e la pubblicazione del libro di Robert Stinnett «Il giorno dell’inganno». Non si tratta di teorie recenti. Di complotto si comincia infatti a parlare fin dall’autunno del 1944 quando un esponente della destra americana, il giornalista John Thomas Flynn, realizza un fascicolo di 25 pagine intitolato The Truth about Pearl Harbor. Lo scritto verrà poi ripreso il 22 ottobre dal Chicago Tribune. In quel testo Flynn accusava apertamente il presidente Roosevelt di essere al centro di un complotto che aveva prima provocato e poi favorito l’attacco giapponese.
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